Due parole sul coinvolgimento di Fabio Piselli nei fatti relativi alla tragedia del Moby Prince…

23 Settembre 2023 Off Di Fabio Piselli

Eccoci giunti al settembre 2023, molti anni dopo la tragedia che ha mietuto tante vite e troppi futuri, vincolati a questo eterno presente rappresentato dalla assenza di una verità certa ed accertata che possa così offrire l’opportunità di elaborare il lutto per i parenti superstiti e di superare le complicanze di chi, a vario titolo, è entrato nelle annose e nebulose indagini giudiziarie.

Eccci di fronte alla possibilità di una terza commissione parlamentare d’inchiesta, ad un anno di distanza dalla relazione finale della seconda commissione parlamentare d’inchiesta, la quale ci ha confermato l’assenza della nebbia, la possibilità che vi fossero numerosi superstiti oltre i tempi stabiliti dalle precedenti inchieste giudiziarie e che la causa-concausa della collisione sia da riferirsi ad una terza imbarcazione, rimasta ignota.

Molto interessante è stata l’esposizione da parte dell’onorevole Romano quando ha ipotizzato che questa terza nave fosse stata una anonima bettolina oppure il XXI Oktobeer II della Shifco, indicando quindi l’anagrafica precisa della ipotetica altra nave oltre l’anonima presunta bettolina e, non, riferendosi ad una seconda ignota imbarcazione.

Vi sono ancora in essere le indagini delle procure procedenti e mi auguro che oltre ai reati per i quali la AA.GG. incaricate procedono, si possano anche comprendere le ragioni per cui proprio una inesistente nebbia ha offuscato le indagini per così lungo tempo ed in modo prevalente su ogni altra potenziale ragione.

Non possiamo infatti considerare tale nebbia una avvezione investigativa apparsa solo sopra la Procura di Livorno sin dalle ore successive alla tragedia, bensì un immediato rifugio per ogni altra potenziale responsabilità, il cui spessore, potrebbe giustificare l’ingerenza di quella nebbia in tutte le progressive indagini che sin dal 1991 al 2010 hanno imposto questa verità come la più opportuna per elaborare collettivamente il caso, rimasto invece protagonista della memoria grazie all’impegno dei familiari superstiti e di chi ha partecipato al tentare di mantenere attiva l’attenzione degli investigatori oltre la nebbia stessa.

Il nostro è quello strano paese nel quale le indagini sui fatti che a vario titolo coinvolgono presumibilmente degli apparati dello Stato, si trasformano nelle pluri inchieste trans-generazionali tanti sono i decenni che trascorrono dall’evento originale, costringendo così tutte la parti in causa e la collettività alla tutela della memoria che inevitabilmente si affievolisce col passare del tempo e ne subisce le modifiche strutturali, anche in forza della attuale veicolazione delle informazioni in internet che miscelano le opinioni coi fatti storici, senza dare il tempo di approfondire i singoli passaggi che formano il reale quadro di insieme degli eventi.

Mi permetto quindi di scrivere questo confronto rispetto al mio coinvolgimento sia nei fatti originali della tragedia nel 1991 che nelle successive ed annose dinamiche giudiziarie, le quali mi hanno visto protagonista di quelle carte ormai pubbliche che mi saldano alla strage ad ogni ricerca del mio nome in rete, specialmente dopo l’archiviazione richiesta ed ottenuta dalla procura procedente nel 2010 che, alla luce dei risultati delle due commissioni parlamentari, merita un confronto maggiore dei soli contenuti scritti in quelle carte.

Ho sempre avuto ed ho la massima fiducia nella Giustizia ma conosco la differenza fra legge e giustizia laddove le indagini sono differenti in base a chi ne è oggetto, trasformando in questo modo le investigazioni in uno strumento compatibile con le procedure di legge ma, non necessariamente, mirato ad ottenere Giustizia.

Il nostro è quello strano paese in cui la giustizia è vulnerabile alla politica e la politica è vulnerabile alle giustizia, dando così vita ad un’area di fortificazione caratterizzata dagli interessi superiori spesso camuffati da “ragion di Stato” invece più compatibili con gli interessi di quella “nozione di sistema” diventata Stato che gestisce anche le carriere di chi opera nella giustizia.

Per quanto mi riguarda sono restato in disparte da ogni invito ad ottenere dei vantaggi dalla visibilità che inevitabilmente la stampa ha dato al caso, non ne ho ottenuto un passaporto per entrare in politica, non ne ho scritto dei libri come mi fu proposto e non ho accettato l’invito a fare un docu-film sulla mia vita, tanto per fugare il fango che ha adombrato un mio presunto interesse a “farmi pubblicità” restando negli anni quel cretinotto qualsiasi che ha sempre parlato coi fatti, in ogni loro interpretazione, ma radicati ad un riferimento riconoscibile e senza ombre, caratterizzato dalla assunzione della pienab responsabilità conseguente ad ogni azione che ho scelto di intraprendere, prima fra le quali quella di testimoniare col mio nome e cognome ed in modo compatibile con quanto richiesto dalle legge e dalla giustizia.

Nel novembre del 2007 scelsi di dare vita al Blog per svincolarmi dall’essere solo un oggetto di notizia di cui parlava la stampa e la televisione, diventando così anche un soggetto di notizia erogata tramite i contenuti del Blog, mirato soprattutto agli aspetti emotivi e psicologici del valore sociale della testimonianza che al solo Fabio Piselli.

Negli anni la mia vita è cambiata, oggi sono un cinquantacinquenne che ha formato una Famiglia numerosa, che ha rinunciato a lavorare nel settore della giustizia e della tutela dei minori ma, purtroppo, sempre vincolato alle complicanze di queste annose indagini che invece di avere la massima attenzione della collettività sembrano essere solo monitorate da parte di chi ha strumenti potere ed interesse ad osservarne gli sviluppi e, questo, lo può fare solo un sistema strutturato e non un indagato qualsiasi.

Mi auguro quindi che queste inchieste possano indirizzarsi verso la comprensione delle dinamiche e dei meccanismi di quella “nozione di sistema” che ha inquinato le indagini stesse, non per coprire il solo evento Moby Prince ma per tutelare il quadro più ampio in cui la tragedia è avvenuta.

La tragedia del Moby Prince avvenuta il 10 aprile del 1991 è stata infatti causata da un incidente ma occorre capire se vi sono state delle variabili tali da con-causarlo in qualche modo, partendo dalla premessa che la causa non esclude la con-causa e per questo non occorre sviluppare delle ipotesi pro e contro, bensì integrarle fra loro dopo averne valutato appieno la verosimilità e la compatibilità.

Per farlo è opportuno ricostruire un completo quadro di insieme dello scenario in cui si è mosso il Moby Prince, prima durante e dopo la collisione con una nave alla fonda ancorata a pochissime miglia dalla costa livornese, altrimenti si rimane focalizzati esclusivamente sulle immagini dell’evento che più ci colpiscono o sulle informazioni che le varie inchieste hanno evidenziato ma, in questo modo, si rischia di perdere la progressione complessiva della linea del tempo ed il contesto generale degli eventi di quella sera che ci potrebbero ancora consentire di meglio conoscere lo scenario e di poter eventualmente riconoscere ogni singola dinamica che possa aver contribuito a sviluppare i meccanismi che hanno causato, e\o con-causato, la collisione fra due navi di stazza diversa.

Leggere questo articolo permette non tanto di capire chi sono che poco interessa ma i motivi per cui ho approcciato l’inchiesta con una interpretazione di tipo “militare” degli eventi che hanno presumibilmente con-causato la collisione fra il Moby Prince e la petroliera alla fonda, facendolo in un modo più razionale di quanto mi è stato invece attribuito nei motivi della richiesta di archiviazione da parte del pool di inquirenti livornesi e spiegando la progressione delle ipotesi che ho sviluppato in forza degli elementi di ricerca che ho raccolto nel corso degli anni.

Ricerca che è iniziata ben prima della tragedia del Moby Prince, nata sin dal 1986 per delle ragioni giudiziarie di cui sono stato protagonista, da subito indirizzata negli ambienti militari livornesi e verso la base di Camp Darby, i cui risultati hanno progressivamente collimato in alcuni aspetti con l’evento Moby Prince perchè vi è stata una convergenza di risultanze proprio in detti ambienti militari e, per questo, ho doverosamente informato (ad ogni effetto di legge e non in modo anonimo) la procura procedente e contestualmente il dottor Carlo Palermo.

Rispetto alla scelta di diventare, in questo modo, una persona informata sui fatti desidero precisare che l’ho compiuta in piena coscienza e con la consapevolezza che stavo coinvolgendo altre persone ed enti istituzionali, per questo motivo ho rispettato tutte le procedure tecniche al fine di offrire sia alla A.G. a suo tempo procedente che ai soggetti coinvolti tutte le garanzie di legge per, da un lato, attivare ogni seguito investigativo di competenza ritenuto utile e, dall’altro, per tutelarsi con gli strumenti legulei ritenuti opportuni, anche ed eventualmente contro la mia persona.

Preciso che dalla mia testimonianza non ho mai riportato condanne di alcun tipo per i reati di falsa testimonianza, per calunnia o diffamazione o per quei reati tipici della testimonianza mendace, nessuna condanna in tal senso.

In buona sostanza non ho aderito a nessuna forma diversa dalla testimonianza utilizzabile in ogni fase del procedimento o di un eventuale dibattimento se ritenuta spendibile in tal senso da chi indagava, non ho infatti percorso le classiche vie dell’informazione confidenziale o della notizia triangolata anonimamente, come i confidenti o gli informatori di polizia, bensì mi sono esposto in prima persona assumendomene ogni responsabilità.

Esattamente come la giustizia richiede ad ogni cittadino.

Diversamente da alcuni articoli di stampa che mi descrivono ora come “informatore del Dott. Palermo” ora come suo “consulente tecnico” preciso che mai ho fatto “l’informatore” di nessuno in vita mia, se non di fronte all’inoltro di una informativa alla competente A.G. nel compimento delle mie funzioni e dei miei doveri di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Quando ho preso contatto col Dottor Palermo ero un consulente tecnico in materia di intercettazioni ambientali in favore delle varie Autorità e Polizie Giudiziarie e contestualmente ero nominato come CTP da parte di alcuni avvocati con cui cooperavo nel corso di procedimenti giudiziari ma non sono mai stato, e mai mi sono qualificato, come il “consulente” del Dottor Palermo.

Per quanto concerne la Procura di Livorno, ho con questa un lungo rapporto (sin dal 1986) in forza del quale ho ricoperto tutti i ruoli previsti dalla legge come parte offesa, come indagato, come testimone, come consulente tecnico ausiliario di Polizia Giudiziaria e dalla quale ero già stato sentito proprio in ragione della mia storia o, se vogliamo, del “caso Piselli” che inizia nel dicembre del 1986 e che ad oggi non ha ancora trovato una soluzione definitiva. Ma questa è un’altra annosa storia che si connette con la tragedia del Moby Prince perchè, appunto, una ramificazione delle mie ricerche ha coinciso con lo stesso quadro di insieme del contesto nel quale è avvenuto l’incidente fra il traghetto e la petroliera, soprattutto dopo la morte di mio cugino Massimo avvenuta nel 2004 che mi ha permesso di parlare con i suoi superiori della Difesa statunitense, per i quali lavorava come impiegato (autista) all’ambasciata americana di Roma negli uffici del controspionaggio militare.

Non mi sono quindi alzato una mattina del 2007 con delle “dirimenti notizie risolutorie” sulle cause della tragedia (come dice la Procura di Livorno) bensì ho fornito alla procura procedente quanto a mia conoscenza rispetto alla elaborazione di molte informazioni raccolte sin dal 1986 che hanno riguardato il solo caso Fabio Piselli, i cui contenuti erano in alcuni aspetti convergenti con la tragedia del Moby Prince. informazioni in merito alle quali ho progressivamente, sin dal 1991, notiziato gli inquirenti protempore.

Descrivermi falsamente come un “informatore”, tramite la stampa, ha rappresentato un marchio di ambiguità che certamente ha raggiunto il suo scopo che, unitamente ad altre descrizioni, ha progressivamente disegnato un’immagine distorta di Fabio Piselli.

Sono nato nel 1968 di fronte alla Accademia Navale di Livorno ove la mia famiglia abitava in viale Italia 255, sono cresciuto a Livorno ed ho abitato per molti anni di fronte alla entrata del porto di Livorno in piazza Luigi Orlando 3, ove dal terrazzo di casa potevo avere la vista completa del cantiere navale e dell’entrata del porto. Mio padre Mario Piselli è stato in vita un marittimo che in quel porto ci ha lavorato sin dai primi anni sessanta, soprattutto alla Darsena Toscana ed al Marzocco ove l’impresa di dragaggi marittimi per la quale lavorava aveva i cantieri e gli ormeggi.

Ha lavorato sui rimorchiatori, sui puntoni, sulle chiatte, sulle draghe e con le bettoline per molti anni sia a Livorno che in altri porti italiani, fino alla pensione che lo ha lasciato nelle mani di un tumore che nel 1995 se lo è portato in mare per sempre, mare ove ho disperso le sue ceneri.

Sono perciò cresciuto nell’ambiente del porto di Livorno, andavo con mio padre al Marzocco ogni volta che potevo, lui aveva la pessima abitudine di essere dedito al suo lavoro di “capo” e sovente mi portava anche il fine settimana per controllare gli ormeggi in caso di condizioni meteo avverse o per programmare il lavoro e l’imbarco degli equipaggi; con lui ho progressivamente imparato a navigare, mi permetteva di uscire con le bettoline quando scaricavano i fanghi raccolti dalla draga, posso quindi affermare con umiltà di conoscere il porto di Livorno (certamente nel periodo della tragedia) di conoscerne le dinamiche, di conoscerne la gente, di capire qualcosa di navigazione in mare e soprattutto di conoscere bene il traffico ordinario d’entrata e di uscita verso e dal porto di Livorno che ho sempre amato osservare dal mio terrazzo, riconoscendo ogni nave che entrava in attesa di quella di mio padre quando il suo lavoro era svolto fuori dalla rada oppure a più lunga distanza.

Mio padre aveva un “chiattino” ormeggiato allo Scoglio della Regina col quale andavamo a pesca fra la Vegliaia e la Meloria, mi portava al porto dai suoi amici che comandavano i pescherecci che ci regalavano il pesce e da quelli delle “cantine” con cui si usciva per una pesca di altura, cantine in cui ho vogato nell’armo del Borgo per qualche tempo, luoghi che mi sono stati familiari perchè vi sono cresciuto dentro, sono stato nella squadra di Lotta Libera del Cantiere Navale Luigi Orlando fino a quando ho intrapreso la carriera militare dopo il biennio superiore, nel 1985, per poi riprendere gli studi per diventare un educatore.

Leggere di me in qualche carta giudiziaria come una persona che “non distingue il nord dal sud” è quasi offensivo per gli sforzi di mio padre che mi ha messo alla barra sin da bambino, sono un sommozzatore da oltre 37 anni senza contare che la carriera militare l’ho svolta nei reparti dell’artiglieria paracadutisti e missilistica oltre ai corsi alla scuola sottufficiali, luoghi in cui la topografia e l’orientamento erano materie di base che mi hanno consentito di saper almeno usare una bussola e di saper leggere una carta topografica tanto da distinguere i punti cardinali, per quanto nei motivi di archiviazione si tenta di adombrare una mendacità del mio foglio matricolare, degli encomi e delle relazioni informative ricevute con una valutazione elevata, documenti invece poi risultati assolutamente veri ed originali.

Proprio un evento accaduto nel 1986 durante la mia carriera militare ha sviluppato “il caso Piselli”. Periodo nel quale frequentavo assiduamente la base di Camp Darby, prima durante e dopo essere giunto in servizio anche alla Brigata Paracadutisti Folgore, base militare statunitense in cui ho avuto una relazione con una soldatessa americana che operava nel battaglione che gestiva il terminal portuale livornese e le navi utilizzate per il trasporto del materiale militare americano fra cui quello bellico. Donna dalla quale ebbi il mio primo figlio poi purtroppo deceduto per SIDS che oggi sarebbe stato un uomo fatto di oltre trenta anni, nato mentre ero assente e donato in adozione da parte della madre in forza delle leggi americane che vigevano su Camp Darby e che permettevano di rinunciare ad un figlio, per quanto proprio dopo la morte del bambino su quella adozione vi fu una inchiesta militare interna alla base rispetto alla famiglia dell’ufficiale che lo adottò.

A riprova di quando ho sempre detto, che mi è stato più volte negato, è stato finalmente possibile recuperare un documento dei carabinieri della compagnia interna a Camp Darby dal quale emerge una relazione SETAF datata gennaio 1986 che mi indica con nome e cognome alla guida di una automobile in uso alle forze armate americane targata AFI, documento che precede il recupero di altri documenti che finalmente possono dimostrare veritiero quello che mi è spesso stato attribuito come fonte di un millantatore o addirittura di “un povero pazzo”.

Da quanto fino ad ora ho scritto è possibile dedurre che avevo motivo di conoscere il porto di Livorno, che avevo motivo di conoscere la base di Camp Darby e parte del suo personale italiano ed americano, compreso le caserme ed il personale dei paracadutisti della Folgore in cui ho prestato servizio. Inoltre nella mia famiglia vi sono stati dei parenti che hanno storicamente lavorato dentro l’ambasciata americana di Roma sin dal 1948 come autisti degli addetti militari della Defense Intelligence Agency, parenti che ho sempre frequentato anche nei loro ambienti di lavoro in cui ho contratto delle amicizie col personale americano ivi operante; parenti la cui casa è ancora tappezzata dei riconoscimenti e dagli encomi firmati da quasi tutti i presidenti americani dal 1948 al 2004 e dai molti comandanti dell’intelligence militare per i quali hanno lavorato.

Quando è avvenuta la tragedia del Moby Prince non ero quindi solo un cittadino livornese che abitava fronte mare e che ha partecipato ai soccorsi come volontario della Protezione Civile, ero già stato un soldato professionista in reparti di elevata qualità ed inserito in un settore che ancora oggi mi costringe ad essere chiamato da qualche procura procedente i fatti avvenuti in Italia fra il 1987 ed il 1994. Avevo già avuto esperienze all’estero in ambienti ostili ed altre esperienze anche estremamente dure e traumatiche per il giovane che ero, ove nel tempo libero quando restavo a Livorno ero inserito come volontario presso la Pubblica Assistenza sia sulle ambulanze che in una allora embrionale sezione della protezione civile, per questo ho partecipato direttamente ai soccorsi ed ho potuto vivere in prima persona tutte le fasi e gli interventi dall’approccio alla nave una volta giunta in banchina al riconoscimento dei resti dei corpi recuperati e trasportati presso l’hangar “Karin B” appositamente approntato per l’emergenza Moby Prince.

Questo hangar si chiamava “Karin B” perchè era stato a suo tempo destinato alle operazione legate alla “nave dei veleni” cioè la stessa “Karin B”. Hangar che nel 1988 avrebbe dovuto ospitarne i fusti tossici, motivo per cui feci parte della selezione di una aliquota della protezione civile locale appositamente formata anche dai VV.FF. specializzati in tal senso, poi dopo varie lotte politiche i rifiuti furono portati in Emilia Romagna anche se quelli peggiori rimasero in realtà in Africa, nel porto di Koko in Nigeria ed altri poi inviati in Somalia.

Ho vissuto quindi l’evento Moby Prince con tutta la esperienza fino ad allora acquisita, con la piena conoscenza dei luoghi in cui la tragedia è avvenuta, con la totale consapevolezza degli ambienti militari e di ciò che alcuni settori più qualificati di questi rappresentavano in termini di importanza militare oltre il territorio livornese ed i confini nazionali.

La mia attività è stata certamente quella legata alle operazioni di soccorso e di assistenza relative alla tragedia del Moby Prince ma svolta ed approcciata con una ottica di più ampio respiro proprio in ragione delle mie caratteristiche, arricchite anche dal periodo durante il quale avevo cooperato all’estero con delle società di sicurezza private straniere, in cui vi erano degli operatori israeliani che ho poi rincontrato qualche tempo dopo quando ho abitato all’Isola d’Elba ove questi avevano la base mentre prestavano la propria opera in favore della società armatrice del Moby Prince (navarma\finarma).

Quanto sopra rinforza le ragioni della mia “interpretazione militare” del contesto nel quale si è consumata la tragedia del Moby Prince. Interpretazione che ha sviluppato nel corso degli anni alcune ipotesi, talune immediatamente cadute ed altre invece coltivate soprattutto nel momento in cui hanno trovato prima la genesi, poi un potenziale riscontro nella convergenza con i risultati delle ricerche che, come ho già spiegato, stavo conducendo negli ambienti militari livornesi ed a Camp Darby per le ragioni personali legati agli eventi del 1986.

Sia ben chiaro che ho sempre parlato di ipotesi, non di fatti già provati, per questo ho scelto di informare la procedente autorità cosciente che solo una indagine ufficiale e fatta secondo le corrette procedure, avrebbe potuto ottenere quegli stessi ed anche dei maggiori risultati da utilizzare sotto il profilo probatorio all’interno di un eventuale processo, che da parte mia avevo raggiunto in minima parte in modo meno ortodosso e per ragioni diverse, come detto legato ai fatti del 1986.

Ero ben cosciente che interrogare eventualmente un ufficiale dell’intelligence militare statunitense da parte di una ordinaria procura italiana sarebbe stato impossibile ma rappresentava un tentativo utile per proiettare in termini politici quel che la ordinaria giustizia trovava come ostacolo, certo del fatto che quanto era avvenuto intorno al Moby Prince prima durante e dopo la tragedia, aveva a mio avviso dei chiari connotati di politica estera e questa è stata la ragione per la quale mi sono assunto la responsabilità di fare i nomi di coloro con cui avevo avuto dei contatti interni agli ambienti militari e di intelligence, sia italiani che americani e di indicare dei soggetti come potenziali detentori di memorie o di conoscenze sul contesto generale del porto di Livorno del 10 aprile 1991, dai quali magari poter ottenere una maggiore collaborazione in termini di testimonianza.

Diversamente da quanto indotto a credere dalla Procura di Livorno non mi sono mai qualificato avanti l’A.G. procedente come un agente del Sismi ma ho spiegato le ragioni dei miei contatti negli ambienti militari e di intelligence italiana e straniera, per cui risulta inutile o strumentale l’aver chiesto da parte degli inquirenti allo stesso Sismi se ero un loro agente o collaboratore, quando sarebbe stato più idoneo semplicemente formulare il quesito se ero un soggetto noto e se vi fosse un fascicolo a mio nome presso gli archivi della settima divisione, della prima divisione, della seconda, della terza e della ottava divisione del Sismi o nella segreteria speciale della PCM per ogni eventuale altra ragione diversa dall’essere in servizio al servizio; fosse solo per un caffè preso con un funzionario del Sismi\RUD unitamente ad un Colonnello della Folgore o per le attività intercettive che conducevo per la P.G. Le quali hanno visto anche il coinvolgimento di operatori ed ex operatori dei servizi segreti.

La tragedia del Moby Prince è avvenuta in un contesto in cui vi erano in essere dei movimenti di materiale bellico militare in corso, prima durante e dopo la collisione, avvenuta quindi in un teatro di operazioni militari ed anche agli occhi di personale militare in ampio numero e con diversi cappelli oltre al doppio cappello della prefettura di Livorno che ha avallato le operazioni americane di carico e scarico di armi, condotte fuori da ogni regola nota se, non, invece autorizzate dagli accordi ancora oggi segreti che regolamentano le attività militari di Camp Darby.

Negli anni abbiamo infatti assistito alla progressiva identificazione di quelle navi cooptate dalla Difesa statunitense utilizzate anche la sera del 10 aprile 1991 per il trasporto delle armi da e per la base di Camp Darby ed il porto di Livorno, alcune delle quali erano note ed altre invece tenute segrete fino a poco tempo fa. Navi inserite in un contesto di operazioni militari in pieno allarme “guerra del golfo”, erano infatti gli ultimi giorni della prima guerra del golfo ed era ancora attivo il sistema di allarme e di protezione militare anche nel porto di Livorno.

Rispetto alla mia conoscenza relativa a queste navi posso dire, come ebbi già a dire nel corso dei vari interrogatori sostenuti avanti la procedente procura, che la soldatessa americana con la quale avevo avuto una relazione alla fine degli anni ottanta e dalla quale ebbi un figlio lavorava proprio nel battaglione dell’esercito americano che si occupava della gestione di quelle stesse navi, che lei definiva col termine “cover sisters”. Questa ragazza lavorava non in base ma in un ufficio esterno a Camp Darby che in quel periodo si trovava in località Stagno, all’interno di una anonima palazzina di via Ajaccio e conosceva le dinamiche del terminal portuale, anche quelle relative al trasporto delle armi e degli esplosivi gestito da un’altra sezione dell’esercito americano ma partecipato anche dal suo reparto e dai dipendenti italiani che in esso operavano.

Faccio presente che durante il confronto che ho accettato di sostenere avanti la procura procedente con un dipendente italiano di Camp Darby responsabile del terminal portuale, ho avuto l’autorizzazione dai magistrati per somministrargli dei quesiti ottenendo delle risposte dalle quali si può oggi capire che in casi eccezionali il materiale bellico poteva essere trasportato anche tramite dei mezzi gommati, non solo quindi ed esclusivamente tramite le chiatte ed il canale dei navicelli. Mezzi gommati che potrebbero essere stati usati anche la sera del 10 aprile 1991 senza essere identificati oltre alle normali chiatte che invece erano sensibili alla sorveglianza.

Dallo stesso confronto è stato possibile comprendere che il personale italiano operante nel corso dei trasporti delle armi e degli esplosivi fra il porto e Camp Darby smontava alle ore venti, mentre quando gli americani decidevano di continuare il movimento del materiale bellico oltre le ore venti utilizzavano solo il personale militare e civile americano.

Sempre nel corso del confronto è stato possibile comprendere che a bordo delle navi militarizzate dalla Difesa statunitense per il trasporto del materiale bellico potevano esservi imbarcati dei militari americani o dei contractors civili per la sicurezza, anche armata, e per le comunicazioni con le stazioni di terra tramite un sistema radio codificato.

Tutto questo è avvenuto in diretta, di fronte al pool della procura che lo “vedeva con gli occhi”.

Sarebbe ancora oggi possibile quindi recuperare le memorie di coloro impiegati in tal senso la sera del 10 aprile 1991, di verificare se nei loro rapporti vi sono stati segnalati degli scontri, verificare se i loro canali radio erano noti oppure avevano altre frequenze fino ad oggi non ancora valutate.

Quanto sopra rispecchia pienamente il carattere del contesto militare del quale ho parlato accennando al mio approccio interpretativo di tipo militare delle con-cause che hanno portato un ordinario e quotidiano traghetto di linea come il Moby Prince a collidere con una petroliera alla fonda.

Ipotesi che ha preso sostanza quando ho incontrato nel corso delle mie ricerche, come ho detto nate per motivi personali ma condotte in un ambiente convergente con quello del Moby Prince, dei personaggi che hanno fornito delle notizie relative ad un presunto movimento di armi parallelo a quello americano, indirizzato verso la Somalia e distratto anche per altre destinazioni.

Occorre ora comprendere che il movimento di armi condotto dagli americani era un evento noto alle autorità di sicurezza italiane, anche nei suoi aspetti tenuti segreti ai magistrati, era quindi sostanzialmente autorizzato in ogni sua forma mentre il presunto parallelo movimento di armi verso la Somalia rappresentava invece un traffico di armi del tutto illegale e clandestino, condotto sotto l’ombrello americano ed in esso nascosto, presumibilmente noto anche agli americani stessi ma certamente noto alla sicurezza italiana perchè un simile traffico era parte di quella politica estera di cui ho fatto accenno in sede giudiziaria definendola “politica estera clandestina” atteso che si stava armando almeno dal 1987 un governo come quello somalo di Siad Barre che, proprio nella primavera del 1991, ha visto la caduta ed il processo di cambiamento della Somalia fra i vari signori della guerra, tanto da portare poco dopo la comunità internazionale alla nota missione di pace partecipata anche dai contingenti italiani e resa famosa non solo per i nostri caduti ma anche per l’omicidio di Ilaria Alpi e di Miram Hrovatin, che conducevano delle ricerche sul quel presunto traffico di armi e di rifiuti tossici fra l’Italia e la Somalia.

L’interpretazione di tipo militare alla quale ho fatto accenno, non è nata per giocare all’agente “zerozerobeppe” in forza di chissà quale fantomatica psicopatologia o frustrazione condizionante il mio equilibrio mentale, bensì dalla razionalizzazione di un evento irrazionale come una strage del genere, razionalizzando anche le ipotesi che agli occhi di chi è estraneo alle operazioni militari di quel tipo sembrano appunto roba da film.

Nel farlo non ho cercato di rendere razionale l’irrazionale ma ho semplicemente reso razionale quel che appare irrazionale proprio perchè fuori dall’ordinario senza però snaturarne i contenuti “straordinari” ma donandogli la cornice dell’ambiente in cui gli eventi si sono originati, nel caso di specie un ambiente con connotati tipicamente militari.

Nella mia valutazione non mi è apparso affatto irrazionale ipotizzare che dato il quadro di insieme del contesto militare nel quale il Moby Prince è andato a collidere contro una petroliera alla fonda, non era così impossibile che i sistemi elettronici e le unità umane attivate per la protezione ed il monitoraggio delle operazioni militari in corso, prima durante e dopo la tragedia, avessero potuto rilevare qualcosa di utile per le indagini.

Mi sono chiesto se, effettivamente vi fosse stato un parallelo traffico di armi con la Somalia, doveva altresì esservi stato un parallelo sistema di protezione.

Proprio perchè quel tipo di operazioni non erano delegate a dei contrabbandieri di chinotto ma a persone con una preparazione militare o almeno con una ampia copertura in tal senso e, se tale protezione vi era effettivamente stata, non poteva che essere stata delegata a quei reparti dedicati per le operazioni clandestine che in Livorno avevano sostanzialmente casa, ove vi erano certamente i reparti dai quali provenivano coloro inseriti in quei settori clandestini delle forze armate e dell’intelligence in allora esistenti; alcuni dei quali ho potuto conoscere durante la mia permanenza sia alla Folgore che a Camp Darby ed altri invece resi noti alla collettività perchè uccisi in Somalia o poco dopo la stessa missione.

Gente qualificata sotto il profilo militare che ha potuto in via ipotetica vedere, sentire e relazionare al proprio livello superiore, dal capocellula all’autorità politica, quanto ha appunto visto sentito o comunicato mentre la tragedia è avvenuta oppure quanto ha rapportato nei momenti successivi, magari apportando qualsivoglia classifica di segretezza sui propri reports che può ancora oggi essere eventualmente declassificata.

Documenti che se esistenti sono infatti ancora oggi potenzialmente estraibili da qualche segreteria speciale ma solo con un intervento politico, con un serio intervento politico e non solo una mera azione che possa offrire le risposte banali e cartolari già avute quando si sono formulate delle domande per ottenere delle risposte ermetiche.

Per quanto concerne invece gli israeliani voglio spiegare che non ho mai detto, contrariamente a quanto mi è stato attribuito dalla procura, che la tragedia del Moby Prince è stata causata da una battaglia fra “agenti del mossad e terroristi palestinesi” avvenuta nel porto di Livorno.

Fortunatamente vi sono i video degli interrogatori che potranno un giorno meglio definire quanto ho risposto ai magistrati e la mia attitudine comportamentale nel farlo, ben diversa dalla millanteria o dalla spavalderia.

Ho parlato di israeliani e di una loro attività in essere nei momenti della tragedia perchè sapevo della loro presenza in quel periodo nella zona livornese, presenza riferita a dei civili di cittadinanza israeliana che operavano all’interno di una società privata che forniva dei servizi di sicurezza di elevata qualità sul territorio livornese e nella provincia; sapevo che gran parte di loro proveniva da esperienze militari nella Difesa dello Stato di Israele, perchè in quegli anni chi generalmente lasciava le forze armate del proprio paese e desiderava restare nell’ambiente entrava in questi circuiti, oggi noti e meglio organizzati mentre a quel tempo erano gestiti quasi esclusivamente dai britannici, dai sudafricani e dagli stessi israeliani alcuni dei quali avevo già incontrato mentre io stesso avevo operato all’estero in tal senso fra il 1989 e la fine del 1990.

Niente di spionistico quindi ma un altro aspetto della sicurezza paramilitare, utilizzata anche da molti governi in termini di consulenza e di formazione e come ho detto oggi considerata una prassi ordinaria.

Sono stati prima gli uomini della Polizia di Stato poi quelli del Sismi ad identificare i cittadini israeliani operanti nella società di sicurezza privata presente all’Elba come ex appartenenti al Mossad, non li ho mai indicati come tali ma solo come ex militari israeliani per quanto era dato per scontato a dire il vero.

Ho detto invece che per quanto era a mia conoscenza questi israeliani operavano nella zona livornese e nella zona di Savona già prima della tragedia del Moby Prince e non solo dopo che l’armatore del traghetto ebbe ad incaricarli della sicurezza a bordo, magari lavoravano per altri incarichi ma certamente erano già attivi a Livorno.

Faccio presente che da altre indagini relativi ai fatti somali ed al traffico di armi è emerso che l’intelligence israeliana aveva effettivamente attivato in quegli anni un monitoraggio mirato verso alcuni elementi dei paracadutisti italiani sia essi operativi in Somalia che nelle loro caserme livornesi. Forse si trattava degli stessi gli stessi presunti militari italiani presumibilmente già presenti a Bosaso in Somalia prima della missione Restore Hope ed Ibis.

Per questo durante il confronto che ho accettato di sostenere con un ex collega della Folgore in servizio nelle forze speciali a già al Sismi, al quale i magistrati mi hanno autorizzato di somministrare dei quesiti, ho chiesto della sua eventuale esperienza diretta o conoscenza operativa della presenza di militari italiani a Bosaso prima durante e dopo la missione italiana in Somalia, considerando che Bosaso era una zona fuori dalla competenza della operatività della stessa missione italiana.

L’ex collega ha risposto inizialmente riferendosi a Bosaso a mio avviso quasi in modo positivo, poi ha chiesto di essere eventualmente sollevato dal segreto ed il magistrato ha giustamente interrotto i miei quesiti che si sono quindi rivolti alla volontà di avere una conferma, ottenuta, della mia presenza negli uffici del suo comando al 9° Col Moschin, laddove questa mi era invece sempre stata negata o dipinta di millanteria ogni mia espressione in tal senso ed invece ancora una volta confermata effettivamente avvenuta, magari ancora una volta per un solo caffè tra ex colleghi paracadutisti.

E’ infatti oggi possibile dimostrare veritiera la mia presenza all’interno di uffici del comando di reparti di elevata qualità, all’interno di uffici di forze di polizia e di altri uffici istituzionali fino a prima negata e descritta come millanteria di una sorta di povero frustrato. Occorre perciò capire il perchè, per tutte le volte che sono stato in questi luoghi, la mia presenza non è mai stata documentata, immediatamente negata e risultata tale solo dopo i miei sforzi in tal senso o dopo aver più semplicemente fono-registrato gli incontri (anche a mia tutela) di fronte a cui è stato impossibile negarli.

Nella mia ipotesi, che ho fornito ai magistrati, elaborata dai risultati delle ricerche condotte e converse coi fatti del Moby Prince, ho parlato che nel periodo della tragedia il traffico di armi italiano diretto in Somalia era presumibilmente protetto da operatori dei settori clandestini della nostra intelligence militare, quasi tutti provenienti dai nostri reparti speciali di base a Livorno, facendo il nome di chi avrebbe potuto eventualmente offrire anche la propria memoria, nome che ho fatto nel modo già descritto offrendogli tutte le garanzie di legge per la tutela dei suoi interessi, anche se la Procura mischia questi nomi con altri del tutto estranei, indicati su invito dei magistrati come dei militari con i quali avevo prestato servizio.

Ho detto che parte di quel traffico poteva essere distratto anche verso altri destinatari fra i quali dei palestinesi, perchè i risultati acquisiti dalla mia successiva presenza in Libano nel 2007 mi avevano confermato questa ipotesi e la ragione dell’interesse israeliano di monitorare questi eventi in quel tempo, tramite le loro antenne sul territorio, ovvero quegli stessi operatori di sicurezza privati che il nostro Sismi ci dirà essere stati degli agenti del Mossad, non il Piselli.

Gli stessi operatori che la Navarma\finarma poi impiegherà a bordo dei suoi traghetti.

Ho detto ai magistrati che questo gruppo operativo israeliano utilizzava presumibilmente dei piccoli pescherecci italiani basati anche a Piombino con cui raggiungevano Livorno, che sostanzialmente affittavano pagandone gli armatori dei quali ho indicato i dati anagrafici ai magistrati sempre con le stesse garanzie di legge già sopra spiegate. Uno di questi è stato arrestato poco dopo per presunti fatti di droga mentre è emerso realmente che almeno uno di questi pescherecci era presente nella rada del porto di Livorno la sera della tragedia del Moby Prince, presenza mai prima di allora rilevata dalle precedenti indagini.

Per quanto concerne il termine “battaglia” questo non è effettivamente sbagliato, termine che i magistrati mi hanno attribuito perchè ho effettivamente parlato di un ipotetico scontro avvenuto fra chi era a bordo di una imbarcazione piccola, simile ad un peschereccio, e chi proteggeva il traffico di armi clandestino verso la Somalia che era a bordo di tre motoscafi veloci con almeno tre operatori imbarcati su ognuno di essi, partiti sia dal porto di Livorno che provenienti da Marina di Pisa e diretti nella rada di Livorno.

Ho detto effettivamente che una piccola imbarcazione è andata in fiamme, indicando non il “XXI Oktoober II” come mi è stato attribuito dai magistrati bensì il peschereccio affittato dagli israeliani che era molto più piccolo della nota nave della Shifco. Piccolo peschereccio che prima di affondare ha quasi colliso mentre era già in fiamme con la petroliera alla fonda nella fiancata opposta a quella contro la quale si è scontrato poco dopo il Moby Prince.

Questa è stata la ipotetica “battaglia” di cui ho parlato.

In realtà l’unico riferimento che ho fatto inerente un palestinese riguardava un collaboratore del contingente italiano della prima missione in Libano, quella di Angioni e Pertini per capirci, che ancora offriva qualche notizia perchè residente in Toscana ed ancora in contatto con degli elementi della Folgore e del “Tuscania”. Attenzionato anche dall’operatore dell’intelligence americana (tale John) che segnalai ai magistrati prima di incontrarlo invitandoli a monitorare i contenuti dei nostri colloqui che registrai, operatore che incontrai più volte a Firenze prima e dopo la mia attività in Libano nel 2007 il quale non è mai stato realmente cercato dagli inquirenti e che paradossalmente relazionò il proprio livello superiore fino a Washington sulle nostre attività, documenti ancora recuperabili dai canali americani se solo richiesti con i giusti metodi.

Orbene sono cosciente che agli occhi di chi è estraneo alle operazioni militari in tal senso tutto questo potrà somigliare ad un film, ma per chi è addentro all’ambiente non è così impossibile ipotizzare l’attività di una aliquota di osservatori nascosti dentro un anonimo peschereccio che monitora un obiettivo di interesse operativo, imbarcazione che per qualche ragione finisce in fiamme forse per un banale incidente o forse per uno scontro con chi proteggeva l’obiettivo osservato, esfiltrandosi poi dalla zona nei modi possibili o preventivamente già pianificati da una precedente opera di intelligence condotta in modo tale da valutare tutti gli indici di rischio e di compensarli sia con mezzi propri che coi mezzi d’ambiente.

Per offrire un esempio semplice a chi legge e non ha un quadro chiaro di cosa è avvenuto nella rada di Livorno, si può ricostruire immaginativamente la scena pensando ad una auto al cui interno vi sono dei soggetti che monitorano altri soggetti su altre auto, circondate da tanti camion che si muovono in un piazzale non grandissimo, carichi di armi e di esplosivi, mentre un bus di linea colmo di passeggeri segue il suo normale percorso passandovi vicino, fino a quando queste auto si scontrano ed accade qualcosa che fa mutare percorso al bus tanto da finire contro un enorme tir parcheggiato carico di benzina causando il rogo che ucciderà i passeggeri del bus.

Per cercare di comprendere il percorso del Moby Prince, che lo ha portato dalla sua rotta ordinaria contro la petroliera alla fonda, ho sviluppato in allora anche un’altra ipotesi, ripeto solo una ipotesi, rispetto ad una potenziale “presa nave” la quale è nata dalla valutazione della dinamica della collisione, dalla valutazione della posizione dei corpi delle vittime e dai brevissimi tempi di sopravvivenza indicati in quel momento dalla procura, dalla valutazione dei residui degli esplosivi trovati a bordo e dalla attenta valutazione di quanto riportato dalla testimonianza di un presunto pescatore e radioamatore che disse di aver visto dei motoscafi sottobordo del Moby Prince con gente che sembrava salire o scendere dalla nave, prendendo immediatamente atto che avrebbe potuto semplicemente aver visto la pilotina dei piloti del porto prima che il traghetto finisse contro la petroliera.

Proprio questa ultima testimonianza fu inoltre a suo tempo scartata dai magistrati dopo che vi fu un tentativo di ricostruire il collegamento via radio con tale Luccio, che disse di trovarsi in mare durante una trasmissione televisiva, che finì in una sorta di burla con il presunto testimone che in realtà stava trasmettendo da una auto parcheggiata a due passi dalla regia dicendo di essere quello stesso Luccio che vide cosa accadde la sera della tragedia del Moby Prince ed ingannando anche gli stessi autori della trasmissione.

Il racconto originale aveva invece nei suoi contenuti degli elementi che successivamente hanno avuto dei riscontri nelle mie ricerche, ovvero la presenza di almeno un motoscafo visto poi anche da altri testimoni più genuini sottobordo del Moby Prince, con sopra tre uomini che rimasero in silenzio e inattivi nonostante l’emergenza.

Motoscafo la cui presenza portò la procura a sentire il senatore Andreotti rispetto a degli eventuali segreti militari atteso che egli era in carica nel 1991, audizione che fu pubblicizzata sui giornali proprio mentre con l’avvocato Palermo stavamo cercando di raccogliere la testimonianza di personale militare che avrebbe potuto saperne di più su quei motoscafi, militari che invece si allarmarono proprio per quel tipo di articoIo che riguardava esattamente quello su cui ci stavamo confrontando, che credo pubblicò il settimanale Panorama; ex colleghi che individuarono in me non più una sorta di “mediatore di testimonianza” ma un “infame” che li aveva traditi.

Nei risultati delle mie ricerche evidenziai infatti dei motoscafi che si erano mossi da Marina di Pisa verso il porto di Livorno, passando per il Calambrone ove questo Luccio disse di averli visti e di aver sentito qualcosa via radio che riportò al suo amico radioamatore a terra, questi era un livornese che conoscevo bene perchè inserito nella protezione civile e col quale potei parlare anni dopo, il quale confermò che Luccio aveva effettivamente visto dei motoscafi descrivendone le dinamiche che in minima parte risultarono essere compatibili con gli elementi di riscontro che avevo raccolto.

Ho parlato poi della ipotesi di una “presa nave” rispetto alla posizione dei corpi delle vittime del Moby Prince perchè questi sono stati ritrovati tutti o quasi tutti in un unico ambiente, come radunati in esso, ma in realtà i passeggeri del traghetto non avrebbero avuto il tempo di essere stati resi edotti in così pochi minuti della ubicazione esatta dei punti di ritrovo in caso di emergenza ed in modo così ottimale per raggiungerne uno ed uno solo tutti insieme, soprattutto grazie ai soli avvisi informativi sulle misure di sicurezza che generalmente in quel periodo erano trasmessi via interfono o tramite video e non sempre ascoltati da tutti i passeggeri intenti a posizionarsi in cabina o nei vari punti del traghetto.

I rapporti ufficiali ci hanno inoltre sempre detto che le vittime erano morte poco dopo l’incendio, che la sopravvivenza a bordo è stata minima e scadeva così l’ipotesi che avessero potuto effettivamente affrontare l’emergenza superando le fiamme ed il fumo da più punti della nave per raggiungere il salone nel quale sono stati ritrovati in massa.

Prendeva invece spessore l’ipotesi che questi fossero già stati radunati nel salone prima della collisione, come avviene nelle procedure di “presa nave” di tipo militare concentrando le persone in un unico ambiente e dividendo da questi il comandante ed il personale in plancia più importante, ipotesi rinforzata anche dal presunto cambio di rotta della prua del Moby Prince.

Ripeto che produssi questa ipotesi con la ampia evidenza che solo di una ipotesi si trattava e, come tale, coltivabile nel corso delle indagini tramite i canali militari e di intelligence sia che avevo segnalato sia quelli ritenuti idonei da parte del pool.

Ricordando a titolo di esempio i quasi scontri avvenuti fra le nostre forze speciali e quelle inglesi nelle acque di Malta negli anni ottanta ed indicando gli operatori che le avevano vissuti in prima persona.

Relativamente alle tracce di esplosivo di tipo militare che sono state repertate da un perito del tribunale, queste erano certamente scadenti per valutare l’ipotesi di un attentato o di una bomba a bordo per questo le ho ipoteticamente ricondotte alla dotazione individuale degli operatori intenti alla “presa nave”, come generalmente avviene nel corso di queste attività sia condotte da unità di intervento speciale di tipo istituzionale sia da parte di operatori privati con una simile esperienza.

Piccole quantità di esplosivo non idonee per un attentato o per configurare un trasporto di esplosivi a bordo del traghetto ma certamente capaci di produrre una azione utile per abbattere delle porte o delle antenne di comunicazione per esempio con delle piccole cariche taglienti e demolenti.

Inoltre nel corso delle attività di recupero dei resti delle vittime dalla nave da parte dei VV.FF. i quali li ponevano nelle sacche che poi ci consegnavano sotto bordo per portarle all’hangar Karin B, sono state recuperate alcune armi da fuoco, delle pistole che personalmente potei vedere riconoscendo in queste quelle tipiche in dotazione alle FF.PP. italiane e ricondotte a chi perito nel rogo lavorava in esse ma anche un modello che in quegli anni non era così comune, non immediatamente attribuibile a nessuno.

In aggiunta sembrava esservi un numero di vittime superiore ai 140 corpi ufficialmente riconosciuti, ovvero 147, motivo per cui nacque l’ipotesi della presenza di altre persone perite a bordo ma nel corso dei miei interrogatori ho sottolineato che proprio la confusione generale vigente dentro l’hangar Karin B ed il terribile stato di quel che trovavamo dentro le bodybags avrebbe potuto indurmi in errore nel conteggio dei corpi durante la ricomposizione dei resti.

Quanto sopra ha giustificato l’ardita ipotesi della “presa nave” sviluppata con la piena consapevolezza che avrebbe stimolato una reazione critica, ma comunque compatibile e complementare con l’ipotetica azione militare legata ad un precedente scontro avvenuto nelle acque in cui il Moby Prince navigava ed altrettanto compatibile con i moduli israeliani.

Ipotesi che mi sarei aspettato eventualmente considerate essere di scarso valore investigativo da parte degli inquirenti ma non tali da meritare quella volontà riduzionista, delegittimante e sostanzialmente denigratoria che ho ricevuto da parte di chi ha indagato l’ultima inchiesta sulla tragedia.

Ipotesi nate dalla mia convinzione che poco prima della collisione fra il traghetto e la petroliera alla fonda vi fosse stata in essere una attività emergenziale tale da condizionare i movimenti di più navi, attività militare e conflittuale confermata anche dal ritrovamento dei resti di una imbarcazione nel fondale della rada di Livorno, che ebbi ad indicare ai magistrati, proprio al punto nave della zona di collisione che, mai, ho detto essere riferibili al XXI Oktoober II bensì al piccolo peschereccio già in fiamme che ha sfiorato la petroliera poco prima dell’impatto del Moby Prince.

Per quanto concerne le anomalie del traffico radio nei momenti del may day queste potevano essere a mio avviso anche ipoteticamente riconducibili ad una attività di tipo militare compatibile con lo scenario sopra ipotizzato.

La nebbia, che nel corso della mia attività la sera del 10 aprile 1991 non ho mai avvistato, salvo il fumo prodotto dal rogo e dopo quindi la collisione, avrebbe (laddove esistente) potuta essere stata prodotta (prima della collisione) in modo artificiale da parte di chi necessitava di occultare la propria attività di trasferimento di carichi da una piccola imbarcazione proveniente dal porto di Livorno ad una più grossa nave “balena” presente in rada, ipotizzata in questo caso effettivamente nel XXI Oktoober II.

Il fatto più importante che mi ha permesso di rinforzare questa ipotesi è stato la raccolta di notizie in ambienti americani che sembravano avvalorare l’ipotesi di un qualche incidente avvenuto prima della collisione del traghetto e del successivo rogo, incidente che aveva allarmato tutti i sensori di sicurezza e le unità di pronto impiego, compreso un sistema mobile di comunicazione e di monitoraggio presente dentro la base di Camp Darby e non solo quello della base di Coltano del quale ha parlato un anonimo telefonista durante una trasmissione televisiva, dicendo di essere un dipendente italiano della base e che gli americani avevano visto tutto coi loro sistemi di monitoraggio elettronico.

Persona che avevo creduto di poter identificare tramite un altro dipendente italiano della base che avevo segnalato alla autorità procedente, unitamente ai militari italiani inseriti in un dispositivo di elevata qualità presumibilmente attivati la sera della tragedia.

Unità satellitare mobile, ovvero un camion container attrezzato simile a quelli in uso all’artiglieria contraerei, che era parcheggiato dentro la base di Camp Darby anche la sera del 10 aprile 1991, da utilizzare sia per le attività di monitoraggio e controllo che per la gestione dei voli dell’elicottero in uso al comando di Camp Darby che in quel periodo era ad esclusiva conduzione americana, con la sola presenza italiana rappresentata da un ufficiale di collegamento della Folgore, dai carabinieri della Setaf e da una aliquota di operatori speciali inseriti in un dispositivo in allora esistente a livello Nato intorno al quale ho perimetrato fra il 1985 ed il 1991.

Tornando alla mia persona, a quel Piselli del Moby Prince, ho letto una descrizione fortemente denigratoria nei motivi della richiesta di archiviazione da parte della procura procedente, nella quale si toccano dei fatti della mia vita in modo riduttivo, supponente, superficiale, induttivo ed oggettuale tale da rinforzare l’ipotesi di avere a che fare con una sorta di povero scemo o di alcolizzato da fumosa birreria.

Come ho detto non bevo e non fumo, che la mia salute mentale seppur provata da talune esperienze traumatiche sembra ancora soddisfare i canoni clinici della cosiddetta normalità, che conduco una vita semplice dedicata a mia moglie ed ai nostri cinque figli, posso rispondere a quella delegittimante descrizione che ho letto senza creare polemiche ma nel pieno rispetto del lavoro dei magistrati, evidenziando alcune conclusioni errate che mi sono state attribuite, una parte delle quali ho già descritto nei contenuti sopra esposti ove ho spiegato che non ho mai parlato di “battaglia fra agenti del mossad israeliano e terroristi palestinesi” avvenuta nelle acque di Livorno bensì della presenza di cittadini israeliani che poi il Sismi ci dirà essere stati ex agenti del mossad ed ove non ho mai detto che il “XXI Oktoober II” è la nave affondata, bensì ho parlato di un piccolo peschereccio presumibilmente compatibile coi resti individuati poi dalla procura procedente.

Preciso che non sono mai stato “cacciato” dalle FF.AA. ma i motivi del mio congedo sono riferibili ad un problema al mio occhio destro che emerse in modo grave ed improvviso mentre ero in servizio a Ravenna come pilota di mezzi speciali per missili contraerei in attesa di transitare al Gr.a.co-Ftase alla Nato di Verona. Tale problema risultò essere una importante patologia di cui ancora soffro e che giustificò il congedo che certamente interruppe la mia carriera ma non per questo mi si possono attribuire delle “complicanze traumatiche da frustrazione” specialmente laddove ho dimostrano in trenta anni la capacità di tolleranza a ben peggiori eventi traumatici e frustrazioni.

Inoltre i magistrati nella richiesta di archiviazione nella parte che mi riguarda sembrano in un passaggio di rinforzo alla loro valutazione schernire il fatto che “gli agenti del Mossad possano o meno toscaneggiare”. Sempre premesso quanto ho già detto rispetto a questi israeliani faccio comunque presente in via indicativa che nella Difesa israeliana militano alcuni ufficiali che sono cresciuti nella comunità ebraica livornese, con almeno uno dei quali usavo distribuire da bambino “il gong” che era un manifesto di Livorno-cronaca poi diventato Il Vernacoliere, militare israeliano che posso assicurare parlare il livornese meglio di me che sono cresciuto nel quartiere del porto di Livorno.

I magistrati trovano inoltre, sempre nella loro relazione, alcuni nomi che ho indicato come operatori dell’intelligence militare statunitensi come “poco americani”. Non posso far altro che evidenziare che alcuni membri della mia famiglia emigrati nei primi del ‘900 negli USA hanno oggi lo stesso cognome, Piselli, ma sono cittadini americani da molte generazioni che hanno mantenuto quindi ai loro occhi un cognome “poco americano”.

Nel corso di quella richiesta di archiviazione, nei punti che mi riguardano, ho potuto evidenziare alcuni commenti e delle dichiarazioni che tendono a descrivermi come un millantatore in forza del risultato delle indagini condotte pregne di notizie valutative in tal senso e non qualitative, si veda per esempio la valutazione della mia attività intercettiva fatta da chi non ha mai condotto una sola operazione in tal senso con me, diversamente dal suo livello superiore che invece conferma l’elevata professionalità in un incarico che, bene saperlo, si basa sul rapporto di fiducia fra l’AG procedente ed il consulente nominato ausiliario di Polizia Giudiziaria.

Grazie al recupero dei documenti che mi furono sequestrati nel novembre del 2007 per una accusa che poi si è rivelata infondata ma purtroppo dopo cinque anni di indagini, si può evincere in alcuni casi l’esatto contrario di quanto invece scritto nella richiesta di archiviazione, tanto che ho definito essere stata una sorta di “omissione di occhi di ufficio” la svista della loro presenza, atteso che quegli stessi documenti erano già in possesso di chi ha scritto la stessa richiesta di archiviazione e che aveva anche informalmente sentito degli ufficiali e dei sottufficiali della Folgore con cui avevo cooperato, i quali avevano fornito invece delle valutazioni positive sul mio conto, evidentemente ritenute inutili.

Rispetto alle accuse ricevute di aver condotto delle illecite intercettazioni e di aver violato un segreto di ufficio, queste non hanno portato ad altro che a giustificare il sequestro di tutto quanto era in mio possesso, atteso che sono state archiviate per l’infondatezza della notizia di reato ma dopo ben cinque anni. Anni i quali hanno sostanzialmente rappresentato non solo uno strumento estorsivo quanto un elemento ostativo il mio normale percorso professionale che fu interrotto proprio per la natura delle accuse con tutte le complicanze conseguenti per la mia vita privata e sociale.

Oggi non lavoro più come consulente per la polizia giudiziaria, non svolgo più le consulenze per gli studi legali in materia di tutela dei minori, avvocati ai quali ho dovuto spiegare l’opportunità di non avvalersi della mia esperienza nonostante la loro volontà di nominarmi consulente di parte.

Alla fine della fiera, come si suol dire, poco conta chi sono o chi sono stato di fronte ad una tragedia come quella del Moby Prince, che rimarrà senza una verità certa fino a quando le indagini saranno viziate dalle dinamiche della “difesa del proprio ufficio” che sovente condiziona la bontà di una indagine laddove questa possa indirizzarsi verso l’operato di talune amministrazioni dello Stato, specie se di sicurezza, oppure nel caso possa evidenziare un operato mediocre, lacunoso o trascurante dell’ufficio stesso.

La verità di una strage muore sempre con le vittime ma nel caso del Moby Prince c’è una differenza, c’è ancora infatti la possibilità di recuperare documenti e memorie dentro la politica dei cassetti delle segreterie speciali senza disturbare dei governi stranieri, per quel che ne so basta andare a Roma e saper cercare oppure rivolgersi agli americani con un indirizzo preciso rispetto al mero brandeggio di domande cartolari, per avere vuote risposte di carta.

Sono e intendo restare un cretinotto qualsiasi, stanco del peso di quasi quaranta anni di lotta per difendere la mia storia contro quanto è accaduto nella mia vita nel 1986 e soprattutto stanco del pregiudizio che nasce e prende sempre più vita dalla ignoranza della collettività, che spesso legge ma non vede, che sovente sente ma non ascolta e che fin troppe volte partecipa alla ricerca della verità di una strage che ha mietuto tante vite con una enfasi emotiva a breve termine.

Quel che non accetto è la denigrazione, lo sberleffo, il riduzionismo e la depersonalizzazione della mia storia, tanto meno adesso che sono padre di cinque bambini ancora piccoli, ma prima o poi leggeranno la “storia” del Babbo che non potrà rispondere alle esigenze strumentali di chi ha indagato la nebbia per trovare la nebbia, condita da quel sarcasmo evidente nelle carte dell’archiviazione del 2010 che se trova soddisfazione nello stomaco del popolino non può trovare accoglienza nelle menti evolute di chi è ancora capace di pensare con la propria testa, di radicarsi ai fatti incontrovertibili e di manifestare il rispetto verso le istituzioni e, non, la sudditanza nei confronti di chi le rappresenta pro-tempore…

Fabio Piselli